Leggere libri vuol dire entrare all’interno di una moltitudine di storie.
Farle proprie, metterle a confronto, imparare da esse come esseri umani e come professionisti.
I libri sono scuole di scrittura.
Leggere tanti libri significa mettersi in ascolto di continui rimandi, di vortici di storie, e frasi e narrazioni che si inseguono, si citano, si fanno lo sgambetto.
Voglio scrivere di un libro letto di recente, che in Francia ha conquistato i librai (dice la fascetta).
Non sarà però un classico post di recensione (ma quando mai mi lascio andare al classicismo?!), bensì una riflessione e un confronto su come si possa narrare la stessa cosa con esiti e forme diverse.
Forse uno dei piaceri che ho maturato di più a forza di leggere è proprio l’attenzione al gioco della narrazione e agli strumenti che chiama in causa.
L’amore è una cosa semplice di Francois Bégaudeau è un romanzo edito in Italia da Salani con la traduzione di Francesco Bruno.
Il titolo originale è L’amour, e privarsi già della descrizione “è una cosa semplice” ci fa fare già una riflessione su come si narra: anche la scelta di un titolo orientata a (non) qualificarne il soggetto, crea una modalità di porsi specifica.
La storia di L’amore è una cosa semplice di Francois Bégaudeau è una storia modesta, nella media intesa nel senso di mediocre (laddove mediocre è utilizzato nella sua accezione meno comune, ovvero di “medio”).
La vicenda si svolge in una cittadina della provincia francese, una provincia come tante.
I protagonisti, tali solo perché sono le figure seguite dalla storia, non certo perché spiccano per protagonismo, sono un uomo e una donna medi.
Non di successo, non destinati a grandi cose, due esemplari di una classe lavoratrice.
Si conoscono, si frequentano, si sposano, hanno un figlio, lavorano, vengono promossi, festeggiano compleanni, natali, anniversari, partecipano a funerali e ad altri matrimoni, raggiungono e lasciano indietro piccoli traguardi normali.
In questa media normalità 40 anni di vita insieme scorrono via in circa 100 pagine.
Quarant’anni che si susseguono in frasi brevi e veloci.
A tratti il libro mi ha ricordato la voce narrante che c’è nel film Il favoloso mondo di Amélie, dove con pochi tratti si dipingono una persona, un quartiere e le sue vite.
Per rendere veloce questa vita che scorre, mancano alcuni elementi che un lettore abitualmente si aspetta laddove si parli di amore: le passioni, le emozioni, i sentimenti.
E il punto perseguito dall’autore è proprio questo: l’amore non è faville, non è fuori d’artificio, non è nemmeno il rimestio interiore.
E’ la quotidianità che scappa via, ti sei sposato, sembra passato appena un calendario e invece sono già dieci.
La quotidianità è anche, tanto, abitudine e l’abitudine succhia via l’esprit de vie, che forse è ciò che realmente manca al libro (va bene che l’amore non sia tramestio di passioni, ma i toni grigi tanto grigi sono anche un po’ troppo grigi!).
Per chi volesse “approfondimenti” di trama (virgolettato d’obbligo), consiglio questa recensione.
Come dicevo, l’intento di questo articolo non è tanto soffermarmi sul consigliare o meno il libro.
La narrazione di L’amour è un elenco veloce di tappe che non si raggiungono con grandi celebrazioni, ma come una “mediocre” normalità.
Quello che invece ho afferrato, è stato il rimando alle righe di un altro autore.
Attenzione: il rimando lo sto facendo io!
Uno scrittore francese che racconta una vita che scorre veloce.
Non l’unico, potremmo aprire una parentesi enorme con tutti gli scrittori e le scrittrici che hanno condensato vite in pagine.
è Emmanuel Carrere che in meno di una pagina ne L’avversario racchiude quelle stesse tappe.
Vale la pena riportare tutto quel pezzo, in cui si racconta la vita cui è destinata la moglie uccisa dal protagonista, Florence.
Sembrava destinata a una vita come tante, una parabola tracciata […]
studi superiori ma senza grosse pretese, nell’attesa di trovare un marito solido e simpatico come lei; due o tre bei bambini da crescere con saldi principi e in allegria; una villetta nella periferia residenziale, con una cucina ben attrezzata; grandi feste in occasione del Natale e dei compleanni , con nonni e nipotini; un gruppo di amici affiatati; un tenore di vita in progressione moderata ma costante; poi i figli che se ne vanno uno dopo l’altro, i loro matrimoni, la camera del maggiore trasformata in sala da musica perché finalmente hai tempo di ricominciare a suonare il piano; tuo marito che va in pensione, e a un tratto ti accorgi che gli anni sono volati, cominci ad avere qualche momento di tristezza, a trovare la casa troppo grande, le giornate troppo lunghe, le visite dei figli troppo rare; ripensi a quel tizio con cui hai avuto una breve avventura, l’unica, appena passata la quarantina, i segreti, l’euforia, i sensi di colpa, allora ti sentivi uno schifo, e poi hai scoperto che anche tuo marito aveva avuto una relazione , aveva addirittura pensato al divorzio; quando arriva l’autunno cominci a rabbrividire, è già il giorno dei morti; finché, facendo un esame di routine, scopri all’improvviso di avere un cancro: ecco, è finita, nel giro di qualche mese sarai sottoterra.
Questo pezzo è un capolavoro.
Se L’amour procede per frasi brevi e puntate, questo passaggio de L’avversario procede per brevissimi punti e virgola.
Finché non arriva il punto fermo, non è finita.
L’Amour, per di-mostrare come l’amore non sia l’effervescenza delle viscere, ma la routine che scorre, non mette picchi emotivi (almeno fino alla fine, quando il dolore si insinua come uno spiffero gelido).
L’avversario in quelle poche righe riesce a trasmettere l’allegria delle feste, l’entusiasmo dei primi passi insieme, il rimpianto per le cose non dette, la malinconia dei tempi perduti.
L’inesorabilità della fine.